“Dos minutos”, è il nome di un gruppo punk argentino, in uno dei loro testi, dice che: “le città sono costruite per far sì che un asino cieco cammini in esse, le città sono figlie della paura, il tracciato della città, la sua rettitudine, gli angoli”. Il muro di Elian, si trova al centro di Milano, in via Ascanio Sforza, al limite tra il centro della movida milanese dei navigli e i quartieri popolari, unisce la periferia al centro cittadino, molto trafficata soprattutto al mattino, quando i lavoratori raggiungono il posto di lavoro.
L’opera s’impone sullo sguardo ancora assonnato degli abitanti di una città prevalentemente grigia: la città, i suoi edifici sono divenuti con il passare del tempo opprimenti, muri pesanti solo allo sguardo, sineddoche di un’architettura storica cui ci siamo affezionati ed è diventato complesso liberarcene. Da qui la necessità di modificare le superfici di un determinato edificio.
Il pendolare si trova spiazzato di fronte a una frana di colore. Lo studio della forma segue una linea logica, distrugge i punti di riferimento di una determinata architettura, abbatte i canoni estetici urbanistici. Questi grandi agglomerati urbani, che sembrano inerti, prendono vita quando le linee curve spezzano la linea indeformabile della città. L’intenzione è di far scomparire la superficie, dando un senso di movimento all’intera struttura, portando al massimo il punto di tensione tra le curve e le finiture del palazzo.
Molte persone in questi giorni di lavoro si sono lamentate che quest’opera non dialogasse con il contesto circostante, ironica affermazione: eravamo proprio lì a discuterne, il lavoro di Elian è stato spunto di un dialogo, iniziato col colore e finito con lo stimolare gli abitanti del quartiere, spinti a parlare d’arte, a valutare la composizione, ad interessarsene, ad interrogarsi sulla necessità dell’opera, sul valore aggiunto che potrebbe dare al territorio. Ed è questo a quello che punta Elian, rompere la monotonia del pensiero comune, distratto e frenetico, come l’andamento veloce e monocromatico, creare uno stato di shock nello sguardo del passante abituato ad annoiarsi guardando fuori dal finestrino.
Qualche tempo fa rispondendo alle mie domande mi disse di aver iniziato a dipingere per strada per scoprirla, per esserne partecipe in qualche modo: “Oggi credo di lavorare per strada perché è un mezzo, uno stimolo ricco di condizionamenti. Uno pensa che il White Cube o le istituzioni formali siano spazi perfetti per lavorare, ma la città contemporanea è arrivata ad un punto in cui si è trasformata in un riflesso sociale molto profondo, in cui gli elementi da tener conto o le condizioni per creare un’opera sono tantissimi.”
Continuiamo ad essere troppo distratti nonostante la presenza di opere a portata di sguardo, malgrado le associazioni culturali come Question Mark, creino gli stimoli durante i percorsi quotidiani, cittadini, troppo abituati ad una architettura che non può essere abbattuta, che non può essere di un colore fuori dalla loro scala cromatica (ben stretta), ho sentito molte persone che lo preferivano il muro bianco come prima, forse queste persone s’identificano troppo nel colore dei loro capelli. Altri entusiasti di trovarsi di fronte a qualcosa d’inaspettato, un colpo in faccia che ormai le città stanno smettendo di darci, sempre più simili tra di loro, stessi negozi, stesso tipo di piccoli ristoranti, i centri commerciali.
Tutti quanti utili, sostiene Elian, “questi spazi fungono da veicolo, ponte, funzionano come un neurotrasmettitore, un link, tra gli spazi abitabili, sono una pausa di vita tra l’architettura”.
Per lui, “il problema delle città è la loro distribuzione e quanto sono funzionali”, questi spazi sono studiati e messi in funzione alla vigilanza. Quindi in alcune occasioni, il vuoto generato da questo spazio (immaginandolo come un piano senza niente) genera rumore, questo effetto secondario si crea con tante questioni all’interno della città”.
Gli 800 metri quadri ci portano ad una riflessione meno introspettiva, (o almeno in un secondo momento) ma ad un continuo spostarsi per guardare da diversi punti di vista i diversi dettagli, giocare con lo spazio circostante, esplorarlo, essere partecipe di quel determinato luogo.
Per cui fate pure un salto a vederlo che tutti sanno dove passa la linea 90.
Silvio Espinoza
Photo credits: Walls of Milano, Chiara Licata
L’astrattismo di Elian come critica alle città
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