Nato dalla collaborazione tra gli artisti Collettivo FX e Nemo’s, il magazine di arte e cultura contemporanea Ziguline, il fotografo e videomaker Antonio Sena, “Non me la racconti giusta” è un progetto di arte pubblica che ha scelto le carceri italiane come difficile ed ambizioso campo d’intervento.
Attraverso un sinergico lavoro di responsabilità con i detenuti, nel mese di novembre del 2016 si sono concretizzate le prime due tappe del progetto, entrambe nella provincia di Avellino: la prima dal 7 all’11 si è svolta nella Casa
circondariale di Ariano Irpino coinvolgendo Aleksandr, Antonio, Dymitro, Giuseppe, Jimmy, Roberto e Stanislao nella realizzazione di un murales di 20×5 metri raffigurante il volto di Ulisse; la seconda dal 21 al 25 nella Casa di reclusione di Sant’angelo dei Lombardi ha portato alla realizzazione di un Totò alato di 30×5 metri grazie alla cooperazione tra Antonio, Carmine, Danilo, Francesco, Gianluca, Giuseppe, Pasquale, Raffaele, Renato e Vincenzo.
La parola d’ordine che ha trainato l’intero progetto è stata dunque condivisione: condivisione di progettazione, condivisione di realizzazione. Condiviso è stato anche il raggiungimento appagante di un obiettivo, frutto di un lavoro creativo e produttivo allo stesso tempo.
Ho raggiunto telefonicamente Collettivo FX, che insieme a Nemo’s, è stato coinvolto nel progetto. Il collettivo si è reso subito disponibile a raccontare come fosse stata questa doppia esperienza.
Da questa chiacchierata sono emersi alcuni spunti di riflessione che aiutano a fare luce sulla condizione delle carceri italiane e su come l’arte possa agire nella costruzione di un’esperienza positiva al loro interno.
Innanzitutto si può certamente dire che la scelta di Collettivo FX non è affatto casuale. Gli artisti sono ideatori di un metodo operativo co-progettuale , il metodo FX per i murales, che trova non pochi punti di contatto con “Non me la racconti giusta”.
Avendo avuto modo di passare del tempo con i detenuti e ragionando dunque con loro rispetto alle attività quotidiane svolte durante la giornata, gli artisti hanno rilevato la mancanza di processi creativi realmente personali, frutto di una riflessione quanto più intima possibile.
Si è quindi deciso di ovviare a tale assenza inserendo “qualcosa non soltanto che avesse una personalità ma che avesse la personalità dei detenuti” e lo si è immaginato con un “metodo che è quello più semplice del mondo, che è quello di chiacchierare, si ragiona, si pensa, noi diciamo la nostra, loro dicono la loro in maniera molto sincera, molto schietta e alla fine vengono fuori delle idee, gli input per le idee.” Dei murales dunque che potessero germinare da un confronto aperto, in cui il disegno diventi segno tangibile di un percorso comune di reciproca conoscenza, umana ed intellettuale.
Sia ad Ariano Irpino che a Sant’angelo dei Lombardi, il primo giorno è stato interamente dedicato alla progettazione, togliendo da subito ogni dubbio sul fatto che fosse di fondamentale importanza saper disegnare: “tutti pensano che la parte più difficile è disegnare invece la parte più difficile è avere un’idea.” Questa affermazione assume ancora più significato se la si inquadra all’interno dell’arte contemporanea con particolare riferimento all’arte concettuale, corrente artistica sviluppatasi dalla metà degli anni ’60 del ‘900 in America, ma ancora attualissima ai giorni nostri anche nel campo dell’Urban Art.
Dopo le prime fisiologiche fasi di studio, di avvicinamento e di presa di coscienza delle potenzialità degli strumenti pittorici, i detenuti si sono sciolti ed hanno preso in mano la situazione e l’iniziativa: “all’inizio noi davano indicazioni sul disegno e le decisioni nascevano partendo da noi con chiacchierata loro, dal secondo, terzo giorno in poi erano loro che decidevano tutto e questo secondo me era l’obiettivo.”
Segno evidente della riuscita del progetto è stata l’intensa partecipazione dei carcerati: “che lavoravano tantissimo, tipo non è che facevano la presenza e una volta scaduto il tempo se ne andavano, […] quando noi arrivavamo, già erano tutti pronti per lavorare, ragionavano tra di loro su quello che c’era da fare, erano intrippatissimi e questo è bello perché è la cultura del lavoro.”
Un bell’esempio di come, fornendo degli strumenti culturali teorici di attuazione pratica, l’arte possa farsi mezzo di una responsabilizzazione personale che aiuti nel reinserimento lavorativo al termine della detenzione.
Le opere, dato il contesto ed il significato di riabilitazione, hanno un forte valore simbolico.
Ad Ariano Irpino il soggetto raffigurato è il celebre eroe della mitologia greca Ulisse.
Protagonista dell’Odissea e nucleo semantico di mille rivisitazioni artistiche ed ispirazioni letterarie, si ricorderà su tutte “il folle volo” di dantesca memoria, l’eroe è il simbolo per eccellenza del tema letterario del “nostos”, il ritorno a casa dei Greci dopo la distruzione della città di Troia.
A Sant’Angelo dei Lombardi invece troviamo il ritratto di Antonio de Curtis in arte Totò, protagonista indiscusso della cultura partenopea e celebrato come emblema della comicità italiana. Il principe della risata, a cui sono state aggiunte delle lunghissime ali, segno di libertà, tiene in mano ‘a livella. Il riferimento è alla famosissima poesia di Totò in cui la morte, proprio come una livella, elimina le diseguaglianze ed appiana i destini dei vivi.
I due murales presentano alcune somiglianze soprattutto sul piano compositivo: sono entrambi infatti costellati di tanti piccoli e dettagliati elementi che spuntano sia dalla barba di Ulisse che dalle lunghe ali di Totò.
Volando sulle ali di Totò, come novelli Ulisse, l’augurio è che i detenuti, con questo bagaglio di esperienze rinnovato e accresciuto, possano presto tornare a casa.
Perché, come dice l’antropologo americano Clyde Kluckhohn, “Il giro più lungo è spesso la via più breve per tornare a casa” e alle volte succede davvero.
Maggiori informazioni:
Sito ufficiale Non me la racconti giusta
Pagina Facebook Ziguline
Video di Non me la racconti giusta
Non me la racconti giusta: arte pubblica in carcere
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