Paolo GOJO Colasanti, artista e writer, inguaribile agitatore politico e viscerale polemista per vocazione, è una delle memorie storiche dei graffiti a Roma della generazione tra i 30 e i 40 anni.
Ci ha concesso un’intervista a 360 gradi per conoscerlo meglio.
NB: Ricordiamo sin da subito al gentile pubblico che per comprendere al meglio la spontaneità d’eloquio e l’immediatezza sinaptica di GOJO non esiste altra maniera che parlarci di persona.
Ciao Paolo, iniziamo con una domanda banale: da cosa deriva la scelta della tua tag GOJO?
La mia tag deriva da un personaggio di un fumetto, come sono le tag di molte artisti che stanno sulla scena. Un esempio classico è quello di STAY HIGH 149 che vicino alla tag disegnava un simbolo, uno stickman con un’aureola che era praticamente il personaggio di un fumetto dove c’era il protagonista che si chiamava THE SAINT il santo. Questo alla fine degli anni ’60, inizio ’70.
Facendo un giro sul tuo profilo Instagram, si nota una tua spiccata passione per gli stucchi romani disseminati in giro per la città. Quanto la tua formazione universitaria da architetto e la tua curiosità per la storia dell’antica Roma hanno inciso sulla tua ricerca artistica?
Abbastanza, visto che la quasi totalità della mia produzione artistica è basata sui miti che popolano un territorio e sulla loro mitologia, non per forza territori romani ovviamente. Per quello che riguarda gli stucchi, la passione iniziò in quinto liceo. All’epoca facevo molti disegni illegali e tante volte in zone centrali di Roma ma non mi piaceva l’idea di altri di “spaccare” un luogo, di spingere il mio nome perché fosse leggibile, comprensibile, andandosi a separare totalmente dal posto in cui lo stavo disegnando: questo mi sembrava un concetto molto vicino a quello delle forme pure che fanno parte del razionalismo architettonico. Adolf Loss, tra i primi a fare delle architetture che assomigliassero alle razionaliste, in “ornamento e delitto” (saggio del 1908 ndr) affermava che: “tutto ciò che è al servizio di uno scopo, deve essere escluso dal regno dell’arte” e per questo motivo odiava gli stucchi; io al contrario li vedevo come qualcosa in grado di umanizzare un palazzo non rendendolo semplicemente un cubo in cui vivere, un’idea astratta.
A me interessava andare a fondermi con un luogo e così ho pensato di prendere ispirazioni dagli stucchi e dai trofei che stanno sopra alle porte, principalmente da questi ultimi (i trofei sono dove vi è raffigurato il simbolo nobiliare). Là ci fu la prima idea su come fondersi con il muro perché sono sempre stato contro l’idea che il muro è la mia tela, se mi voglio fare una tela mi faccio una tela, il muro non deve diventare un disegno sul muro distaccato dal territorio.
Nei tuoi murales si riscontra una marcata attitudine a creare un dialogo con i luoghi e con la storia degli stessi, anche in senso toponomatico. Qual è il processo di avvicinamento che metti in campo quando ti relazioni con la storia di un territorio? Ci vuoi fare qualche esempio?
In linea di massima studio le storie del territorio e quella che è la struttura su cui sto intervenendo. Cerco di individuare il genius loci che abita un luogo e miro a riproporlo in veste grafica in modo che vada a fondersi con quello che è il muro. Il muro non deve diventare una tela totalmente distaccata da quello che è intorno, perché ha un intorno, ha un contesto, è in un punto e non potrà mai distaccarsi da quel punto.
Quando uno fa una cosa illegale che non c’è il tempo di ragionarla appositamente per il luogo: deve essere una cosa efficiente, fica e fatta in poco tempo. Quando però si fanno dei progetti concordati forse bisognerebbe concepire l’opera appositamente, forse più che il luogo che si adatta alle scelte dell’artista, dovrebbe essere l’artista ad adattarsi a quello che è il luogo perché quel posto continua a vivere pure quando l’artista si sarà scordato di aver fatto quel muro. Quando noi facciamo dei disegni sul muro stiamo effettivamente utilizzando l’edificio di quel luogo. A noi serve quel muro per far vivere la nostra arte ma le forme di vita che utilizzano e sfruttano altre forme di vita più grandi di loro per esistere sono due: i simbionti e i parassiti. Tu devi scegliere se essere un simbionte o un parassita.
Senza neanche metterti in discussione, puoi farti la cosa tua punto e basta. Magari hai fatto un’opera in cui hai creato uno sfondo che fa da parete e così facendo funziona bene in fotografia, ma in realtà dal vivo hai distrutto la luminosità di quel luogo. Allora stai facendo il parassita, prendi dal luogo ma non gli lasci niente perché pensi che il disegno tuo basta e avanza per lasciare qualcosa al luogo quindi facendo l’arrogante. Se invece vai fondendoti con il luogo, ragionando tantissimo sul luogo, utilizzando per esempio i colori che sono già presenti, allora sei un simbionte.
Storicamente parlando, esiste un rapporto di dipendenza tra i graffiti e la street art sia nel contesto italiano che in quello romano?
Si è da poco rifatto presente un documentario del ’76 sui graffiti a New York che io penso che sia del ’73 perché non erano terminate ancora le Torri Gemelle. All’inizio del documentario dicono “street art” ma non è quella che chiamiamo adesso ma è la street art-termine inglese per dire l’arte di strada, con il quale si includono anche i madonnari e quelli che fanno i quadretti con il colosseo, le piramidi e i pianetini. L’arte di strada sta in strada. Ed erano chiamati così pure i graffiti e quindi io non so se effettivamente ci sia una dipendenza tra graffiti e street art, so che all’interno dei graffiti un sacco di gente gli dà fastidio la street art anche non ragionando. Ma poi tanti anni dopo li vedi e si mettono a fare street art, abbiamo degli esempi nobili e meno nobili, non c’è una dipendenza vera e propria, volendo continuare con la metafora naturale, sono due razze simili che occupano la stessa nicchia ecologica quindi è probabile che ci sarà sempre una rivalità. Sarebbe invece interessante far collaborare queste due “categorie”, educando i fruitori della street art a capire che i graffiti non sono solo il puro egocentrismo di scrivere il proprio nome.
Hai molti contatti con i centri sociali della capitale, nei quali hai spesso dipinto. Esiste un rapporto di prossimità a Roma tra i graffiti, la street art e questi centri di aggregazione?
Sì assolutamente, c’èrano moltissimi artisti che erano anche compagni e stavano nei centri sociali. Col tempo diventano sempre di meno perché si è sempre meno abituati a ragionare politicamente sulle cose e su come ottenerle politicamente perché viviamo in un’epoca, per certi versi e solo certi versi, sempre più agiata quindi nasciamo con l’idea di avere già molte cose. Se tu prendi per esempio i writer old school di Roma loro non avevano neanche i colori, aveano pochi pigmenti. Quindi alle volte dovevano elaborare il pigmento e loro capirono come far passare il colore da uno spray ad un altro. Farlo oggi è anacronistico come è anacronistico dipingere con i tappini originali degli spray per sentirsi più “hardcore”. Uno adesso non deve passarsi lo spray da un colore all’altro per ottenere il colore che desidera, gli basta comprarlo, ce ne sono talmente tante di sfumature di colori. Dunque nasciamo con una serie di idee che sono di agio, tipo che abbiamo il diritto di dipingere su un muro.
Molto spesso dico ai centri sociali che non è importante coinvolgere l’artista a fare delle cose perché alcuni artisti che vai a coinvolgere a fare dei disegni da qualche parte magari non gli interessa proprio, così che l’artista potrebbe fare un’opera che poi sarà però inesorabilmente vuota e priva di valore. Ci sono tante volte degli artisti che vanno a dipingere in un centro sociale perché “oh ce fanno la serata così me vedono”. Forse bisognerebbe educare le persone che vanno a dipingere negli spazi e cercare di coinvolgerle per far capire loro che dietro c’è una lotta e ci sono molte cose che potrebbero/dovrebbero interessare loro. Quindi dare loro un significato più ampio alle opere che vengono fatte per gli spazi sociali. Il semplice “basta che sia un disegno” non regge.
A settembre del 2015 è stata organizzata una murata per ricordare Massimo Colonna, aka CRASH KID, nel sottopasso accanto alla Stazione di Trastevere. Quanto è stata importante la sua figura e la trasmissione della sua eredità per la scena dell’hip hop romana?
La figura di Massimo Colonna per la scena dell’hip-hop romana è fondamentale, sarebbe importantissimo se tutti continuassero a ricordarlo perché senza Massimo Colonna non ci sarebbero davvero molte cose che ci sono oggi. Riusciva a far far rete tra le persone che in nessuna maniera si sarebbero conosciute tra di loro per ANNI, per DECENNI magari. Massimo Colonna ha organizzato tutte quante le primissime situazioni dove qualcuno poteva conoscere altre persone che facevano cose inerenti all’hip-hop, breakdance, graffiti, rap, djing etc. Massimo Colonna ha organizzato le prime serate hip-hop a Roma, fece molte jam al Palladium: lui andava in giro per l’Europa per imparare come facevano gli altri e per riproporre in Italia in salsa italiana. Aveva già capito che ognuno lo declinava secondo la sua cultura, se vai in Svizzera lo faranno come lo fanno gli svizzeri, idem in Germania, se vai a Roma lo fai come lo fanno a Roma, se vai a Milano lo fai come lo fanno a Milano addirittura. Altrimenti una delle sue crew non si sarebbe chiamata MT2 More Touch Two per esempio. Lui è una persona che sarebbe da ricordare ogni anno, ogni anno per l’eternità. E ricordarlo ogni qual volta ce ne fosse la possibilità, sarebbe veramente determinante ma non solo facendo vedere i disegni o le jam ma spiegando chi era per davvero con i suoi filmati, facendo capire quanto prima ci fosse IL NIENTE e dopo Massimo Colonna ci fosse stato QUALCOSA.
Vieni spesso coinvolto a fare dei murales all’interno dei licei romani, come di recente all’interno del Liceo classico Virgilio. Come nasce e si sviluppa questo tipo di rapporto, solitamente vieni chiamato dagli studenti?
Io le cose le faccio per dare loro una responsabilità, per fare elaborare una storia agli studenti. Solitamente sono chiamato dagli studenti a dipingere però mi sembra sempre una cosa non giusta dipingere un luogo come voglio io punto e basta. Di conseguenza ogni volta, sul momento, ci inventiamo un progetto partecipato. Per esempio al Virgilio decidemmo di fare qualcosa che è anche il motto in cui i ragazzi potessero identificarsi e dipingemmo nella parte centrale del disegno che tra l’altro rappresentava la parte centrale della presidenza (e loro avevano dei contrasti con la preside). Il motto era “parcere subiectus et debellare superbos” cioè “aiutare i più deboli e perseguitare i superbi”. La frase e gli elementi sono stati scelti dagli studenti. Perché non deve essere un disegno mio alla scuola bensì un disegno in cui gli studenti ci rivedano la lotta degli studenti che era quello che sta succedendo in quel momento al Virgilio.
In occasione della presentazione del documentario “Walls of Rome” di Alessandro Ceschi presso la John Cabot University di Roma, il 21 settembre del 2015, hai sottolineato alcune differenze tra la street art, la pubblicità e l’arte pubblica. Potresti indicarci le conclusioni di quel tuo intervento?
Con Walls, l’associazione di cui fai parte, avete creato il progetto di arte pubblica community specific SANBA nel difficile territorio periferico romano di San Basilio. Come valuti il lavoro svolto e gli sviluppi che ha prodotto?
Quali sono gli artisti di arte urbana e non, su scala internazionale e nazionale, di cui apprezzi particolarmente la ricerca e che ti sentiresti di segnalarci?
KEMH uno dei miei preferiti in assoluto, quando iniziò a fare dei biomeccanici meravigliosi, erano delle cose meravigliose soprattutto a Roma dove imperava il lettering nudo e crudo. Lui invece faceva questi biomeccanici totalmente intrecciati in wildstile con questi effetti tridimensionali che uscivano fuori, delle cose che vedevi fare a lui e basta. Ma anche quando faceva i pupazzoni e così via che alla fine prendevano un sacco di situazioni degli anni ’80 con delle sfumature meravigliose che ti davano la controluce, li vedevi fare a lui e basta qua a Roma.
Ed invece cosa ne pensi dell’attuale scena romana sia dei graffiti che dell’arte di strada?
quella che è effettivamente la street art però in linea di massima mi sembra che i graffiti si continuino a fare continuamente e pesantemente basti pensare alle metro di Roma che continuano ad essere fortemente dipinte. I graffiti non sono solo vivi e vegeti ma sono anche attivi. Non ho tantissime persone che mi piacciono dal punto di vista stilistico. Keios e Skeil tra quelli che fanno graffiti a Roma che mi piacciono molto perché hanno dei lettering puliti ben fatti e colorati nonostante se li facciano illegalmente in dei luoghi che sono particolarmente difficili. Anche Tadh di cui mi piacciono i faccioni in giro.
Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Chiudiamo in bellezza: descrivici la tua passione per il sushi
Ph cover: Valentina Venditti