#OPINIONE: Roma, la “street art” e la filosofia del meglio di niente

Premessa

Sono anni che scrivo per il web, ho scritto di ogni tipo di argomento ma ho sempre cercato di farlo con uno stile personale, senza la paura di esprimere le mie idee, di andare controcorrente (quando necessario) e di venire giudicata. Su Urban Lives mi sono già schierata, con fermezza e un po’ provocatoriamente, contro il restauro delle “opere di street art”. Torno quindi a esprimere la mia opinione su una tematica che mi sta particolarmente a cuore, in quanto romana.
Chi mi conosce e chi mi legge sa che sono tornata a vivere a Roma dopo diversi mesi passati a Torino. Ogni città ha i suoi problemi ma lì, sul fronte dell’arte urbana, ho trovato certamente un clima più disteso e un maggiore interesse per progetti strutturati di respiro europeo.

Roma: percorsi di street art, mappa e oltre 300 opere

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Ma veniamo al punto: come saprete Roma sta vivendo una vera rivoluzione artistica: parallelamente alle esposizioni in galleria si susseguono progetti di street art mirati all’abbellimento urbano e alla “riqualificazione” di quartieri disagiati e periferici.
I murales realizzati sono talmente tanti, si pensi anche solo ai quartieri San Basilio, Ostiense, Tor Marancia, Torpignattara, da essere stati (giustamente) mappati, con tanto di app, e da essere luogo di visite guidate e di peregrinaggi di appassionati e cacciatori di street art.
Ci tengo a precisare che capisco l’entusiasmo generale per queste iniziative e che in parte lo condivido anche io: come potrei non gioire della presenza di opere di artisti di rilievo, nazionali e internazionali, nella mia città? Come potrei non essere felice di ammirare interventi di arte urbana che, indubbiamente, danno colore e vivacità a quartieri disagiati che lottano quotidianamente contro delinquenza, criminalità, precarie condizioni urbanistiche, mancata assistenza al cittadino?

Street art a Roma: sfatiamo il mito di “street art” e riqualificazione

Da quando sono tornata a Roma sono stata travolta da questo entusiasmo collettivo, dall’elogio della trasformazione urbana in “museo a cielo aperto”, da questa smania collettiva di esplorare e fotografare. L’opinione pubblica è però spesso passiva, certamente anche in parte condizionata dalla stampa, osservatrice a distanza dei fenomeni locali: articoli privi di riflessioni, di approfondimenti, di indagini sul campo e di opinioni. Anche per questo è nato Urban Lives, per approfondire tematiche ignorate da altri, per raccontare l’arte urbana vivendola in prima persona, a contatto con gli artisti e con gli addetti al settore. Con mia grande gioia mi sono imbattuta in questo articolo del Fatto Quotidiano che riassume perfettamente il mio punto di vista. Eccone un breve passaggio (ma vi invito a leggerlo tutto): “Colpisce l’inconsapevolezza del fatto che presentare un progetto d’arte come efficace soluzione al degrado e alle gravi disfunzioni endemiche della periferia costituisca un’imperdonabile responsabilità. Innanzitutto l’abuso del termine “riqualificazione urbana”. (…) In quale modo i murales possano sostituire l’attività progettuale?”.

La mia opinione: cosa non va e cosa si potrebbe fare

 Non sono un’esperta di urbanistica, non sono una critica d’arte o una curatrice e non sono una giornalista, ma sono una blogger che con passione “vive” l’arte urbana, studiando e indagando il fenomeno sul campo, anche grazie a un contatto diretto e costante con un centinaio di artisti italiani. E, soprattutto, sono una romana, innamorata della sua città. Sono una cittadina che osserva, si pone domande, che non si ferma alla superficie delle cose… in questo caso a quella dei muri colorati che portano “colore e fantasia”. Non mi interessa alzare un polverone politico, non voglio schierarmi contro le istituzioni e certamente non voglio criticare gli artisti che hanno contribuito, spesso (non sempre) con risultati ammirevoli, a rendere Roma più bella. 
Voglio solo fare luce su alcuni aspetti della questione, per troppo tempo trascurati. Voglio schierarmi dalla parte degli abitanti delle zone disagiate, “riqualificate” (si fa per dire), in questione. Proviamo ad analizzare insieme questa tipologia di interventi, spesso privi di progettazione: gli artisti e gli organizzatori studiano il quartiere, chiacchierano con gli abitanti, si confrontano con loro attraverso un dialogo costruttivo e spesso socialmente utile.
Durante la realizzazione delle opere, spesso veicolo di un significativo pezzo di storia del quartiere o di messaggi sociali e provocatori, continua un confronto diretto tra i cittadini, invitati a partecipare e a dare un contributo significativo. Spero perdonerete l’estrema sintesi descrittiva, naturalmente generalizzata, del fenomeno. Va da sé che ogni progetto ha le sue peculiarità.
Ma la domanda che mi pongo da mesi è: dov’è la riqualificazione?
Come afferma e cita l’autrice dell’articolo sul Fatto Quotidiano la precisa definizione di  “riqualificazione urbana” è il seguente: “è una attività pianificatoria, programmatoria o progettuale finalizzata al recupero di una valida dimensione qualitativa e funzionale in strutture urbanistiche e/o edilizie – nell’insieme o in singole loro parti compromesse da obsolescenza funzionale o da degrado”.
In sintesi: concretamente cosa resta di utile al cittadino di queste zone disagiate? Un bel ricordo? Un singolo momento di ascolto, assistenza partecipazione e confronto? E, più in generale, qual è il vantaggio in termini turistici? Sono domande semplici, quasi banali, ma che nessuno sembra porsi e a cui nessuno da una risposta.
E qui veniamo al nocciolo della questione: perché ci si accontenta, con un “meglio di niente”?
Se fossi io residente in una delle “zone della street art” battarei i pugni per tutto quello che poteva essere realmente qualificato, non mi limiterei a gioire del cambiamento artistico o della bella facciata colorata che vedo dalla finestra ogni mattina. Onestamente sarei perfino infastidita dalle ondate di turisti intenti a fotografare i murales. Come afferma giustamente l’autrice dell’articolo citato, “Come tutti sanno infatti,  le “banlieues romane” (!) Tor Bella Monaca, Corviale, San Basilio, Torpignattara, ecc. hanno bisogno di “colore e fantasia” e non di biblioteche, di centri anziani, di impianti sportivi, di parchi – cioè di progettazione, architettura, di investimenti a lungo termine –  che hanno arricchito e continuano ad arricchire le periferie delle grandi capitali europee”.
Dove sono i progetti a lunga scadenza, l’assistenza continuativa al cittadino, la costruzione di spazi pubblici comunitari, gli interventi culturali e architettonici? Perché in questi progetti di street art non vengono coinvolti quasi mai assistenti sociali, psicologi ma anche (e soprattutto) esperti di urbanistica e architetti?
Perché agli artisti coinvolti non viene affiancato un esperto di urbanistica, per la scelta dei muri, dei soggetti, perfino per le scelte cromatiche che meglio si adattino al territorio? Se davvero parliamo di musei a cielo aperto perché l’aspetto curativo e il “prodotto artistico” risulta a volte carente?
Tralasciando questi ultimi aspetti, puramente frutto di riflessioni personali (su cui spero di tornare successivamente), ribadisco che non discuto l’importanza artistica ed estetica di questi interventi, anzi ne sono felice. Quello che mi interessa è smuovere l’opinione pubblica su questo assurdo binomio “street art e riqualificazione”. La confusione e l’ignoranza di massa generano problemi territoriali e sociali seri.
Citando un artista con cui mi sono confrontata “i murales non sono la soluzione ad un urbanistica scellerata e al disagio di certe periferie”.
Le soluzioni noi romani, io di certo, le stiamo ancora aspettando.
Abbiamo tanta strada da fare e io, con Urban Lives, sono pronta a dare il mio contributo costruttivo, a dare voce ai protagonisti della street art nazionale, a supportare e, spero, contribuire a progetti in cui la street art sia uno dei componente all’interno di progetti di vera riqualificazione, fosse anche “solo” sociale e territoriale.
Vorrei infine lasciarvi con un’ultima riflessione: al di là del discorso della riqualificazione l’arte urbana andrebbe valorizzata, almeno ogni tanto, come prezioso strumento di relazioni e creatività, non fine a se stesso: e se al di là del murales come abbellimento estetico si pensasse alla pittura come collante tra cittadini, in particolare di quartieri di periferia che sono dormitori in cui le persone non hanno relazione con lo spazio del quartiere (se non di odio) e momenti di incontro?
 

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