Guido Bisagni, meglio conosciuto con lo pseudonimo 108, è il primo artista che ho avuto il piacere di intervistare per Urban Lives. La sua arte, poliedrica, complessa, carica di simbolismi e di significati e dallo straordinario impatto visivo, non può lasciare indifferenti. 108, come pochi artisti contemporanei italiani, affascina e disorienta allo stesso tempo. Considero quindi una fortuna poter iniziare da lui le mie indagini artistiche e la mia raccolta di storie e interviste.
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La potenza cromatica e l’impatto visivo delle tue opere mi ricordano quelle di Mark Rothko e Paul Klee: parallelo azzardato?
Sia Klee che Rothko sono due dei grandi artisti del ’900, due di quelli a cui sicuramente ho guardato più volte. Forse adesso mi sono allontanato un pochino, ma ho avuto periodi in cui mi sono avvicinato molto a questi artisti, per diverse ragioni. Il Bauhaus è stata una delle più grandi influenze che ho avuto come 108, proprio un punto di rottura. Klee è stato uno dei primi astrattisti che ho conosciuto seriamente e anche se penso di non avere un legame diretto con lui lo considero uno dei grandi. Ho poi avuto un periodo di grande fissazione con Rothko, specialmente per il fascino che hanno esercitato i suoi quadri che io vedevo come “portali” da guardare e in cui entrare. Anche i suoi scritti, il modo in cui vedeva l’arte mi hanno segnato in qualche modo, anche se ora me ne sono forse un po’ allontanato. A livello di artisti storici i miei punti fermi sono Kandinsky, Malevich (nonostante le divergenze) e Arp sopra tutti.
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Quali sensazioni speri di provocare con la tua arte? Caos, spaesamento, riflessione, paura, meraviglia ecc.
Prima ancora della parte estetica o diciamo puramente visuale, quando ho iniziato il progetto 108 avevo in mente proprio di fare qualcosa che “destabilizzasse” almeno per qualche attimo, la vita dei passanti che notavano i miei lavori, che non dovevano essere soltanto pittorici. Come ti dicevo le mie influenze vanno oltre la pittura e ho sempre amato gli artisti che con diversi media riuscivano a creare varchi attraverso i quali uscire dalla realtà di ogni giorno, penso ad esempio ad alcuni film di Fellini, Tarkovskij o Lynch, ma soprattuto a scrittori come William Burroughs. Di solito nomino un film “Decoder”, una specie di manifesto della cultura Industriale che vidi quando ero un ragazzino. In esso F.M. Einheit (degli Einsturzende Neubauten) creava delle cassette da riprodurre illegalmente nelle catene di fast food per fare risvegliare la gente. Questa cosa mi rimase in testa per anni, poi una volta parlando con il mio amico Dr. Pira mi disse di quest’idea che aveva di creare il caos nelle strade attaccando e distribuendo fumetti e storie senza senso. Pira è stato un vero predecessore dell’arte nelle strade, comunque colpito, anch’io cercai di fare qualcosa del genere anche se con un intento meno politico. Forme casuali, disegnate e ritagliate in modo automatico da attaccare in giro per le strade: la mia idea era quella di cogliere l’attenzione di pochi passanti (quelli che come me osservano sempre tutto e si fanno domande strane) e creare una breve interruzione nella vita di tutti i giorni che di solito è casa-lavoro-casa oppure casa-shopping e che io ho sempre visto come una sorta di tunnel. Ecco questa era l’idea di base e che in qualche modo, un po’ più articolato, seguo ancora oggi.
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Ti sei definito “poco urbano”: quali aspetti della natura ti sono maggiormente di ispirazione?
Non so sia gusto dire poco urbano. In effetti ho sempre vissuto in città tra Alessandria e Milano principalmente e l’aspetto “urbano” è sicuramente molto presente in tutto quello che faccio, diciamo che è nelle grandi città che si sono sempre incontrate e sviluppate certe culture. Dall’altra parte però ho bisogno di fuggire, di stare in mezzo ai boschi quando posso, il cemento, la mancanza di vegetazione mi crea malessere. Uno dei motivi per cui sono tornato in una città più piccola è appunto la facilità di uscire della cerchia urbana e andare tra le colline in pochi minuti. Io sono un animista e ho bisogno di vedere alberi, fiumi, animali non umani respirare aria non inquinata. Inoltre stando troppo in mezzo alle persone, specialmente in certi ambienti, è molto difficile tirare fuori delle nuove idee, si finisce sempre per seguire qualche moda. Io preferisco esplorare vie sconosciute e per fare questo ho bisogno di solitudine e di guardare cose che non mi vengono mostrate da altri, anche se è una via molto difficile.
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Quali materiali e tecniche ami usare di più?
Per me il massimo è un rullino e della pittura nera all’acqua su qualche parete fatiscente. Poi mi piace usare qualsiasi tipo di colore, pennello, penna, pastello, strumento… lasciando come ultima cosa computer e dispositivi digitali in genere che comunque possono essere molto utili in certi casi.
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Ascolti musica quando disegni? E come spiegheresti la connessione tra il tuo percorso musicale e quello artistico?
Certo, molte volte il fatto che non riesca a fare niente che mi soddisfa dipendente proprio dal fatto che non trovi la musica adatta per quel momento. La musica riesce a entrare dentro di noi ancora più profondamente della pittura. Io suono anche e la divisione tra i due media è data più dagli altri che tendono sempre a dividere le cose. Comunque secondo me è molto semplice, suoni e immagini sono modi per comunicare idee, sensazioni e io cerco disperatamente di fare questo. Allo stesso tempo sono sempre alla ricerca di qualcosa che mi piaccia vedere e qualcosa che mi piaccia ascoltare, ne ho bisogno allo stesso modo in cui ho bisogno di mangiare. Poi c’è dell’altro: ad esempio il fatto che io abbia deciso di abbandonare la figurazione nella mia pittura deriva dalla musica che è astratta per forza e quindi è di per se stessa creativa e non può copiare la realtà. Ma io mi sto esprimendo male, e queste non sono mie idee ma le ho prese da grandi artisti e pensatori come Kandinsky.
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Hai raccontato in passato in un’intervista la tua passione per William Borroughs, maestro dell’introspezione profonda e viscerale nell’inconscio umano. In quanto appassionata di Beat Generation vorrei chiederti quali opere sue, o dei Beats, ti hanno appassionato maggiormente?
Allora io mi sono avvicinato a Burroughs casualmente quando ero un ragazzino. Mia mamma che era appassionata di cinema horror e grazie alla quale da piccolo vidi alcuni film che mi shockarono abbastanza, quando avevo 14 anni a vedere Il Pasto Nudo di Cronenberg. Quel film mi colpì tantissimo e fu la prima volta che incontrai il nome di Burroughs. Negli anni a seguire mi appassionai a cinema, fumetti e letteratura cyberpunk, specialmente quella più legata ai movimenti underground e lì ritrovai questo grandissimo autore. Come dicevo più sopra è stato uno dei personaggi che più mi hanno segnato nel modo di vedere il mondo la vita e l’arte. Sicuramente la parte che amo di più è quella dei cut ups, quindi ti devo per forza rinominare Il Pasto Nudo, da cui tutto è poi uscito, ma forse il mio libro preferito è “La Morbida Macchina”, a partire dal nome. Feci una grande fatica a leggerlo per vari motivi, ma credo sia uno dei più grandi libri mai scritti. Lui era un beat un po’ a sé stante, non sono mai riuscito a leggere molto degli altri, anche se mi affascinavano molto come movimento, la maggior parte dei pochi libri che ho iniziato non li ho finiti, a parte “I Vagabondi del Dharma” di Keruack che mi piacque molto quando lo lessi.
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Come è stata la tua adolescenza? Dove hai vissuto?
Hahaha… guarda, particolare. Per quanto mi riguarda è stato il più interessante (forse non il più importante, non so) periodo della mia vita. L’ho passata ad Alessandria principalmente, come un vero outsider. Quando avevo 13 anni mi sono messo a skateare e ho continuato a farlo praticamente ogni giorno fino a quasi fine anni ’90. Essere uno skater in quel periodo non era come esserlo adesso, eravamo in 5-6 in città, poche decine nelle grandi città. Era finito il grande boom degli anni ’80 e doveva ancora venire quello di adesso. Ci si vestiva con vestiti enormi presi al mercato, come dei clown. Tutti ci disprezzavano a scuola, per la strada e noi disprezzavamo loro.
Ho passato anni in un parcheggio di un supermercato, con amici che facevano lo stesso. Eravamo sempre senza soldi e si girava sempre con altra gente come noi. Risse e situazioni assurde erano all’ordine del giorno. In quel periodo mi sono avvicinato ai graffiti e alla musica punk-hardcore e poi a tutto il circuito antagonista che era molto diverso da quello di oggi, molto ma molto più interessante e vitale. Ho vissuto al massimo certe cose e altre le ho perse completamente o le ho vissute in modo distorto, ma sono contento di essere stato un vero outsider. Poi sono cresciuto e tutto è finito, ma io sono frutto di quel periodo lì, infatti non sono mai riuscito ad integrarmi sul serio, faccio forme nere che nessuno capisce per gran parte del tempo…
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Come mai la recente introduzione di colori brillanti nelle tue opere nere?
Inizialmente, quando facevo le prime forme usavo principalmente il giallo o l’argento, a seconda del materiale (pvc adesivo o spray). Era un fattore di visibilità. Poi sono passato al nero, che fu da un lato una scelta estetica e pratica, dall’altro un simbolo, una presa di posizione. C’è stato poi un momento che ho toccato veramente il fondo, non solo artisticamente e proprio in quel momento ho realizzato che probabilmente il nero aveva una valenza ancora più profonda di quella che io gli davo. Nello stesso periodo mi stavo rileggendo dopo anni “Lo Spirituale dell’Arte” di Kandinsky e casualmente anche “Paradiso e Inferno” di Huxley, e tutti e due i libri parlavano dei colori, della loro importanza che va ben oltre l’estetica. Ho pensato che stavo evitando una parte troppo importante della pittura e non solo evitando i colori e li ho ripresi in considerazione, ma ormai è qualche anno. Il fatto che li utilizzi comunque poco di solito è perché penso di dar loro ancora più valore.
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Una componente importante del tuo percorso artistico è la sperimentazione: quante prove fai e quanto tempo impieghi, in genere, prima di arrivare a una bozza definitiva?
Io disegno sempre, ma di solito non faccio molte bozze. Quando voglio fare un muro faccio uno schizzetto e poi passo alla parete, sono due cose completamente diverse per me. Stessa cosa con le tele. Non mi è ma piaciuto prepararmi troppo, anche perché il risultato finale è solo una piccola parte di quello che faccio. In oltre la parte irrazionale, casuale e le eventuali imperfezioni hanno un’importanza grandissima in quello che faccio. Chi guarda il mio lavoro deve capirlo: se un lavoro è venuto bene ma io non sono stato bene mentre lo facevo, non è un lavoro veramente ben riuscito per me. Per assurdo riesco a dedicarmi di più alle finiture quando ho troppo lavoro, perché non “perdo” tempo a sperimentare.
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Quale direzioni speri prenda l’arte urbana in Italia?
Non so veramente cosa rispondere. Mi sento così al di fuori da questo, ci sono molti artisti grandiosi in giro, lavori incredibili, è solo che non tutti li vedono. Si fermano alla superficie, è un vero peccato e mi rende frustrato, ma è quello che sta succedendo un po’ ovunque e anche nelle altre arti, nel cinema, ecc… Credo solo che l’arte in generale abbia una grande importanza spirituale, specialmente adesso in occidente ed è un peccato che questa venga sprecata, non abbiamo davvero più niente in questo modo.