Intervista a Gojo: tra graffiti e street-art, intenzione e pertinenza

Paolo GOJO Colasanti, artista e writer, inguaribile agitatore politico e viscerale polemista per vocazione, è una delle memorie storiche dei graffiti a Roma della generazione tra i 30 e i 40 anni.
Ci ha concesso un’intervista a 360 gradi per conoscerlo meglio.
NB: Ricordiamo sin da subito al gentile pubblico che per comprendere al meglio la spontaneità d’eloquio e l’immediatezza sinaptica di GOJO non esiste altra maniera che parlarci di persona.

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Gojo, via Simone Simoni (Roma), maggio 2016

Ciao Paolo, iniziamo con una domanda banale: da cosa deriva la scelta della tua tag GOJO?

La mia tag deriva da un personaggio di un fumetto, come sono le tag di molte artisti che stanno sulla scena. Un esempio classico è quello di STAY HIGH 149 che vicino alla tag disegnava un simbolo, uno stickman con un’aureola che era praticamente il personaggio di un fumetto dove c’era il protagonista che si chiamava THE SAINT il santo. Questo alla fine degli anni ’60, inizio ’70.

Facendo un giro sul tuo profilo Instagram, si nota una tua spiccata passione per gli stucchi romani disseminati in giro per la città. Quanto la tua formazione universitaria da architetto e la tua curiosità per la storia dell’antica Roma hanno inciso sulla tua ricerca artistica?

Abbastanza, visto che la quasi totalità della mia produzione artistica è basata sui miti che popolano un territorio e sulla loro mitologia, non per forza territori romani ovviamente. Per quello che riguarda gli stucchi, la passione iniziò in quinto liceo. All’epoca facevo molti disegni illegali e tante volte in zone centrali di Roma ma non mi piaceva l’idea di altri di “spaccare” un luogo, di spingere il mio nome perché fosse leggibile, comprensibile, andandosi a separare totalmente dal posto in cui lo stavo disegnando: questo mi sembrava un concetto molto vicino a quello delle forme pure che fanno parte del razionalismo architettonico. Adolf Loss, tra i primi a fare delle architetture che assomigliassero alle razionaliste, in “ornamento e delitto” (saggio del 1908 ndr) affermava che: “tutto ciò che è al servizio di uno scopo, deve essere escluso dal regno dell’arte” e per questo motivo odiava gli stucchi; io al contrario li vedevo come qualcosa in grado di umanizzare un palazzo non rendendolo semplicemente un cubo in cui vivere, un’idea astratta.
A me interessava andare a fondermi con un luogo e così ho pensato di prendere ispirazioni dagli stucchi e dai trofei che stanno sopra alle porte, principalmente da questi ultimi (i trofei sono dove vi è raffigurato il simbolo nobiliare). Là ci fu la prima idea su come fondersi con il muro perché sono sempre stato contro l’idea che il muro è la mia tela, se mi voglio fare una tela mi faccio una tela, il muro non deve diventare un disegno sul muro distaccato dal territorio.

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Gojo, Rigogolo a “blueflow” Ventotene, maggio 2016

Nei tuoi murales si riscontra una marcata attitudine a creare un dialogo con i luoghi e con la storia degli stessi, anche in senso toponomatico. Qual è il processo di avvicinamento che metti in campo quando ti relazioni con la storia di un territorio? Ci vuoi fare qualche esempio?

In linea di massima studio le storie del territorio e quella che è la struttura su cui sto intervenendo. Cerco di individuare il genius loci che abita un luogo e miro a riproporlo in veste grafica in modo che vada a fondersi con quello che è il muro. Il muro non deve diventare una tela totalmente distaccata da quello che è intorno, perché ha un intorno, ha un contesto, è in un punto e non potrà mai distaccarsi da quel punto.
Quando uno fa una cosa illegale che non c’è il tempo di ragionarla appositamente per il luogo: deve essere una cosa efficiente, fica e fatta in poco tempo. Quando però si fanno dei progetti concordati forse bisognerebbe concepire l’opera appositamente, forse più che il luogo che si adatta alle scelte dell’artista, dovrebbe essere l’artista ad adattarsi a quello che è il luogo perché quel posto continua a vivere pure quando l’artista si sarà scordato di aver fatto quel muro. Quando noi facciamo dei disegni sul muro stiamo effettivamente utilizzando l’edificio di quel luogo. A noi serve quel muro per far vivere la nostra arte ma le forme di vita che utilizzano e sfruttano altre forme di vita più grandi di loro per esistere sono due: i simbionti e i parassiti. Tu devi scegliere se essere un simbionte o un parassita.
Senza neanche metterti in discussione, puoi farti la cosa tua punto e basta. Magari hai fatto un’opera in cui hai creato uno sfondo che fa da parete e così facendo funziona bene in fotografia, ma in realtà dal vivo hai distrutto la luminosità di quel luogo. Allora stai facendo il parassita, prendi dal luogo ma non gli lasci niente perché pensi che il disegno tuo basta e avanza per lasciare qualcosa al luogo quindi facendo l’arrogante. Se invece vai fondendoti con il luogo, ragionando tantissimo sul luogo, utilizzando per esempio i colori che sono già presenti, allora sei un simbionte.

Foto di Fabio Moschini
Gojo, Ex Mira Lanza (Roma) 2006. Foto di Fabio Moschini

Storicamente parlando, esiste un rapporto di dipendenza tra i graffiti e la street art sia nel contesto italiano che in quello romano?

Si è da poco rifatto presente un documentario del ’76 sui graffiti a New York che io penso che sia del ’73 perché non erano terminate ancora le Torri Gemelle. All’inizio del documentario dicono “street art” ma non è quella che chiamiamo adesso ma è la street art-termine inglese per dire l’arte di strada, con il quale si includono anche i madonnari e quelli che fanno i quadretti con il colosseo, le piramidi e i pianetini. L’arte di strada sta in strada. Ed erano chiamati così pure i graffiti e quindi io non so se effettivamente ci sia una dipendenza tra graffiti e street art, so che all’interno dei graffiti un sacco di gente gli dà fastidio la street art anche non ragionando. Ma poi tanti anni dopo li vedi e si mettono a fare street art, abbiamo degli esempi nobili e meno nobili, non c’è una dipendenza vera e propria, volendo continuare con la metafora naturale, sono due razze simili che occupano la stessa nicchia ecologica quindi è probabile che ci sarà sempre una rivalità. Sarebbe invece interessante far collaborare queste due “categorie”, educando i fruitori della street art a capire che i graffiti non sono solo il puro egocentrismo di scrivere il proprio nome.

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Gojo villa Bonelli (Roma) luglio 2016

Hai molti contatti con i centri sociali della capitale, nei quali hai spesso dipinto. Esiste un rapporto di prossimità a Roma tra i graffiti, la street art e questi centri di aggregazione?

Sì assolutamente, c’èrano moltissimi artisti che erano anche compagni e stavano nei centri sociali. Col tempo diventano sempre di meno perché si è sempre meno abituati a ragionare politicamente sulle cose e su come ottenerle politicamente perché viviamo in un’epoca, per certi versi e solo certi versi, sempre più agiata quindi nasciamo con l’idea di avere già molte cose. Se tu prendi per esempio i writer old school di Roma loro non avevano neanche i colori, aveano pochi pigmenti. Quindi alle volte dovevano elaborare il pigmento e loro capirono come far passare il colore da uno spray ad un altro. Farlo oggi è anacronistico come è anacronistico dipingere con i tappini originali degli spray per sentirsi più “hardcore”. Uno adesso non deve passarsi lo spray da un colore all’altro per ottenere il colore che desidera, gli basta comprarlo, ce ne sono talmente tante di sfumature di colori. Dunque nasciamo con una serie di idee che sono di agio, tipo che abbiamo il diritto di dipingere su un muro.
Molto spesso dico ai centri sociali che non è importante coinvolgere l’artista a fare delle cose perché alcuni artisti che vai a coinvolgere a fare dei disegni da qualche parte magari non gli interessa proprio, così che l’artista potrebbe fare un’opera che poi sarà però inesorabilmente vuota e priva di valore. Ci sono tante volte degli artisti che vanno a dipingere in un centro sociale perché “oh ce fanno la serata così me vedono”. Forse bisognerebbe educare le persone che vanno a dipingere negli spazi e cercare di coinvolgerle per far capire loro che dietro c’è una lotta e ci sono molte cose che potrebbero/dovrebbero interessare loro. Quindi dare loro un significato più ampio alle opere che vengono fatte per gli spazi sociali. Il semplice “basta che sia un disegno” non regge.

A settembre del 2015 è stata organizzata una murata per ricordare Massimo  Colonna, aka CRASH KID, nel sottopasso accanto alla Stazione di Trastevere. Quanto è stata importante la sua figura e la trasmissione della sua eredità per la scena dell’hip hop romana?

La figura di Massimo Colonna per la scena dell’hip-hop romana è fondamentale, sarebbe importantissimo se tutti continuassero a ricordarlo perché senza Massimo Colonna non ci sarebbero davvero molte cose che ci sono oggi. Riusciva a far far rete tra le persone che in nessuna maniera si sarebbero conosciute tra di loro per ANNI, per DECENNI magari. Massimo Colonna ha organizzato tutte quante le primissime situazioni dove qualcuno poteva conoscere altre persone che facevano cose inerenti all’hip-hop, breakdance, graffiti, rap, djing etc. Massimo Colonna ha organizzato le prime serate hip-hop a Roma, fece molte jam al Palladium: lui andava in giro per l’Europa per imparare come facevano gli altri e per riproporre in Italia in salsa italiana. Aveva già capito che ognuno lo declinava secondo la sua cultura, se vai in Svizzera lo faranno come lo fanno gli svizzeri, idem in Germania, se vai a Roma lo fai come lo fanno a Roma, se vai a Milano lo fai come lo fanno a Milano addirittura. Altrimenti una delle sue crew non si sarebbe chiamata MT2 More Touch Two per esempio. Lui è una persona che sarebbe da ricordare ogni anno, ogni anno per l’eternità. E ricordarlo ogni qual volta ce ne fosse la possibilità, sarebbe veramente determinante ma non solo facendo vedere i disegni o le jam ma spiegando chi era per davvero con i suoi filmati, facendo capire quanto prima ci fosse IL NIENTE e dopo Massimo Colonna ci fosse stato QUALCOSA.

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Gojo, “A CrashKid: il buon esempio da seguire” The Jam 2, sottopassaggio Trastevere (Roma), settembre 2015. Foto di Oscar Giampaoli

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Gojo e gli studenti del Virgilio occupato, “parcere subiectus et debellare superbos”, Roma, 2015

Vieni spesso coinvolto a fare dei murales all’interno dei licei romani, come di recente all’interno del Liceo classico Virgilio. Come nasce e si sviluppa questo tipo di rapporto, solitamente vieni chiamato dagli studenti?

Io le cose le faccio per dare loro una responsabilità, per fare elaborare una storia agli studenti. Solitamente sono chiamato dagli studenti a dipingere però mi sembra sempre una cosa non giusta dipingere un luogo come voglio io punto e basta. Di conseguenza ogni volta, sul momento, ci inventiamo un progetto partecipato. Per esempio al Virgilio decidemmo di fare qualcosa che è anche il motto in cui i ragazzi potessero identificarsi e dipingemmo nella parte centrale del disegno che tra l’altro rappresentava la parte centrale della presidenza (e loro avevano dei contrasti con la preside). Il motto era “parcere subiectus et debellare superbos” cioè “aiutare i più deboli e perseguitare i superbi”. La frase e gli elementi sono stati scelti dagli studenti. Perché non deve essere un disegno mio alla scuola bensì un disegno in cui gli studenti ci rivedano la lotta degli studenti che era quello che sta succedendo in quel momento al Virgilio.

In occasione della presentazione del documentario “Walls of Rome” di Alessandro Ceschi presso la John Cabot University di Roma, il 21 settembre del 2015, hai sottolineato alcune differenze tra la street art, la pubblicità e l’arte pubblica. Potresti indicarci le conclusioni di quel tuo intervento?
Il fatto è che noi chiamiamo street art tante cose che street art non sono. Perché non basta fare un disegno in strada per essere street artist, lo devi fare con l’intenzione di farlo. Quando qualcuno fa graffiti va di notte con gli spray a dipingere per strada a rischiarsela con la polizia, quella è una persona che vuole fare i graffiti. Quando uno se non c’è un permesso, non va a dipingere e in linea di massima è un illustratore e quando passerà la moda non gli interesserà più di dipingere sui muri o, come ho visto di altri che hanno fatto gli street artist, fino a che non gli è andata bene in galleria e poi principalmente si sono dedicati alla galleria e poi quando gli è iniziata ad andare peggio hanno ricominciato ad andargli peggio sono ritornati in strada, quella non è street art, quella è “paraculaggine”.
L’arte pubblica non è detto che debba essere fatta da qualcuno che pratica i muri, può anche essere fatta da un illustratore o da un artista in generale perché l’arte pubblica non ha una progettazione solo dell’artista ma di tutti, compresa l’organizzazione. Si dovrebbe ragionare come dicevamo prima per il posto, non puntando a fare un disegno e basta ma facendolo bene ed inquadrandolo quadrimensionalmente nel posto: l’arte pubblica è ragionare un luogo, ragionare il disegno da fare nel luogo, con il luogo. Di conseguenza non è importante che lo faccia uno street artist, un writer o un pittore ma mi interessa che ci sia una consapevolezza di aver fatto una cosa per il luogo, con il luogo.
La street art è come i graffiti, io prendo e faccio una cosa per strada perché mi va ma è principalmente figurativa e fatta con tecniche che solitamente non sono propriamente usate all’interno dei graffiti. Street art è il termine più che altro commerciale con cui si vanno a chiamare tutta una serie di subculture come la poster art, gli sticker, gli stencil e qualsiasi altra tecnica sia elaborata per fare delle cose che non siano propriamente inerenti al panorama graffiti. Ma comunque ripeto dietro la street art ci sarebbe la stessa identica idea dei graffiti però quando lo fai per svoltare con le gallerie non è street art è che sei un “paraculo”. E non dico che tutti lo facciano ma qualcuno lo fa.
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Gojo, Villa Bonelli (Roma) 2008
Con Walls, l’associazione di cui fai parte, avete creato il progetto di arte pubblica community specific SANBA nel difficile territorio periferico romano di San Basilio. Come valuti il lavoro svolto e gli sviluppi che ha prodotto?
Io non sono proprio all’interno dell’organizzazione ma ho dato una mano per quello che potevo. Sanba è stata ben organizzata con il territorio, chi è del territorio lo sa e non bada soltanto alle facciate cieche. A chi non è interessato del progetto ma chi è venuto solo alla parte finale a vedere l’inaugurazione e non i due anni di lavori sul territorio che comprendevano workshop con i ragazzi e con le persone del territorio per realizzare una serie di opere (tipo cinema all’aperto, il gazebo vicino alla bocciofila). A tutti interessa solo della facciata cieca. Ma quando il saggio indica la luna, te guardi il dito. Le facciate cieche sono state solo il punto finale.
La problematica del lavoro svolto è che San Basilio è un quartiere problematico quindi sarebbe servito continuarlo e farlo molto più intenso, perché quello che si è fatto non era abbastanza ma queste erano le possibilità. Sarebbe servito continuarlo per il territorio e magari educare le persone che seguono la street art rispetto a quel progetto. Sfortunatamente credo che le cose che si sono fatte sono deperite, tipo i gazebo che ci costruirono con gli abitanti del quartiere e gli architetti di Orizzontale. Però è la vita loro perché non è che se ne va chi fa il progetto, le persone del territorio non devono mettere a posto le cose che si sono fatte se si rovinano. Dalle mie parti c’è una persona che ha costruito delle scalette di legno che io utilizzo tutti i giorni. Io sono anche andato più volte a ripararle perché se nessuno le ripara, se nessuno gli taglia le piante accanto, se nessuno cambia i pezzi che si rovinano, quella rimane così. Il messaggio che si lasciò al territorio fu quello di curarle ma le persone devono anche autoeducarsi: non può esserci sempre l’esterno che li educa. Dire ad una persona di autoeducarsi è comunque arrogante e tante di queste cose faranno la fine che faranno purtroppo.
I finanziamenti furono tagliati, però quello che si è fatto con 20000 € è molto.
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Gojo, Roma 2008
Quali sono gli artisti di arte urbana e non, su scala internazionale e nazionale, di cui apprezzi particolarmente la ricerca e che ti sentiresti di segnalarci?
Uno che mi piace è l’italiano DEM. Più che i disegni di DEM che comunque mi piacciono, io apprezzo il genius natura quando lui fa i giganti nei boschi costruiti con gli elementi che trova nel bosco. Lui è un artista che mi interessa particolarmente.
Dei graffiti che mi piacciono ci sono gente vecchia qua a Roma li facevano i TDM ed i KIDZ per esempio che facevano i francesoni come pezzi, bianchi e l’outline cicciona rossa o nera. A Roma di writer che mi sono sempre piaciuti da morire ci sono gli NSB (MANJAR, WASHE E TEKNE). Tekne da morire che faceva dei lettering in cui vedevi la T la K e la E mentre la “E” e la “N” erano il vuoto tra una lettera e l’altra; o Manjar che per esempio faceva i cucitoni allargando il tappino però riusciva con più colori ad ottenere delle sovrapposizioni con delle sfumature di colore particolarmente belle e gajarde nel ’94-’95. Lui e basta.
All’epoca mi piacevano molto, da morire, da morire, i lettering di ARTAN e di REWS di una pulizia esagerata. Er
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Wany, puppet col cuore in mano, Testaccio (Roma) 1999

KEMH uno dei miei preferiti in assoluto, quando iniziò a fare dei biomeccanici meravigliosi, erano delle cose meravigliose soprattutto a Roma dove imperava il lettering nudo e crudo. Lui invece faceva questi biomeccanici totalmente intrecciati in wildstile con questi effetti tridimensionali che uscivano fuori, delle cose che vedevi fare a lui e basta. Ma anche quando faceva i pupazzoni e così via che alla fine prendevano un sacco di situazioni degli anni ’80 con delle sfumature meravigliose che ti davano la controluce, li vedevi fare a lui e basta qua a Roma.
Anche WANY mi piace molto. In particolar modo mi innamorai di due disegni: uno a via Portuense in occasione della murata per Crash Kid, fatto nel 1997 con un ragazzino blu con le orecchie a punta che gridava “HO FAMEEE”, e un altro, un puppet col cuore in mano che fece nel 1999 a Testaccio sul muro che ora è di architettura.
HITNES mi piace da morire e per quanto faccia sempre e soltanto animali in qualsiasi posto vada, comunque i suoi animali sono belli perché si fondono con il posto, lui va a fondersi con il luogo a lasciare un pochettino del luogo dietro ad utilizzare dei colori simili a quelli che sono nel luogo. Lui utilizza quel luogo ma gli lascia qualcosa. Non finisce il disegno all’angolo ma lo inquadra tridimensionale e quadrimensionalmente nel luogo perché lo ragiona sul tempo, sul prima e sul dopo. Il disegno suo ci poteva stare trent’anni fa come ci poteva essere tra trent’anni, non sarà anacronistico. Il disegno sarà sempre inquadrato nel luogo, ci potrà molto stare. Sarà qualcosa che continuerà a vivere con il luogo.
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Gojo statuette cicladiche femminili per “No Violence Against Women” al World Food Programme, Roma, 2015
Ed invece cosa ne pensi dell’attuale scena romana sia dei graffiti che dell’arte di strada?
Mi ricordo che a tutte le interviste di quando ero piccolo che in linea di massima quando veniva fatta questa domanda, la risposta era sempre da parte di tutti che: “la scena era tremenda, che non funzionava, le nuove generazioni non capiscono”. Ed io quando ero piccolo mi sentivo molto offeso di conseguenza dirò esattamente il contrario, a me la scena dei graffiti a Roma piace ma per davvero non per andare contro questa cosa. Le persone sono estremamente attive ma credo che la problematica è che la scena dei graffiti risenta molto di quella della street art perché per quanto i graffiti possano essere estremamente dominanti a Roma rispetto alla street art, le persone non vengono educate a vederle di conseguenza non si “vedono”. Si vedono molto di più cose fatte da persone totalmente disinteressate a fare una parete ma totalmente a cogliere il momento, l’attimo “carpe diem” per riuscire a fare una po’ di pubbliche relazioni e trovarsi un pubblico interessato anche se momentaneo. Ho visto che molti si stanno adattando e facendo vedere le loro opere artistiche di conseguenza sfociando in
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Gojo per Valerio Verbano murata organizzata da ASTRA19, viale Jonio (Roma), 2006

quella che è effettivamente la street art però in linea di massima mi sembra che i graffiti si continuino a fare continuamente e pesantemente basti pensare alle metro di Roma che continuano ad essere fortemente dipinte. I graffiti non sono solo vivi e vegeti ma sono anche attivi. Non ho tantissime persone che mi piacciono dal punto di vista stilistico. Keios e Skeil tra quelli che fanno graffiti a Roma che mi piacciono molto perché hanno dei lettering puliti ben fatti e colorati nonostante se li facciano illegalmente in dei luoghi che sono particolarmente difficili. Anche Tadh di cui mi piacciono i faccioni in giro.
Per quello che riguarda la situazione di graffiti e street art non vorrei parlare tanto dei contenuti quanto del pubblico, vorrei dire che per quanto io sia per la libertà di parole di tutti, io sono anche per la libertà di coscienza. Forse tante persone che stanno chiaccherando di graffiti e di street art in qualsiasi situazione, anche quelli che si vanno a spacciare per storici dell’arte senza esserlo, io sono molto più dell’idea che dovrebbero averci la buona creanza e coscienza di tacere.

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Capire che farò in futuro. Io ho un sogno: “Avere un sogno”.
Chiudiamo in bellezza: descrivici la tua passione per il sushi
Ma non lo so, io all’inizio ci andavo con una mia ex ragazza e lì per lì non mi piaceva perché comunque magnavo poco quindi io dopo aver finito il sushi che comunque mi era costato pure l’ira di Dio me andavo a comprà un kebab – bacetto bacetto – poi de corsa a mangiamme un kebab, uno/due quelli grossi comunque. Poi dopo un pochetto ho cominciato ad andarci pure da solo, l’ho capito, ho iniziato ad apprezzarlo, ed adesso se non ci vado una/due volte a settimana me sento male. Poi m’hanno aperto pure un all you can eat sotto casa che è pure bono quindi va bene così e mi faccio del dolore fisico. Mo’ domani ce vado, te odio.
Per maggiori informazioni: Sito Gojo
Ph cover: Valentina Venditti
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